lunedì 5 dicembre 2016

Sorrido a denti stretti.



Il referendum assurdo proposto dal governo Renzi ha perso. Un terzo della Costituzione nata dalla Resistenza antifascista non verrà cambiata. Il giovane si è dimesso pochi minuti fa con un discorso surreale in cui si è preso la responsabilità della sconfitta. Lui, eroe greco dei nostri giorni, fiero spartano sulla breccia Scultoreo Leonida che muore per tutti; non c’è nulla di più populista del pavoneggiarsi di un leader (o presunto tale) che offre il petto vigoroso alle lance. Nulla di più distante dall’idea di partecipazione democratica di quell’improprio utilizzo di una retorica stucchevole di una morte (politica) romantica e solitaria, nulla di più fastidioso di quell’assenza assordante del noi. Non hai perso te, ha perso, soprattutto, un partito. Mai citato il Partito di cui è segretario, nemmeno una volta. La chiave della sua sconfitta e, prima ancora, della sua inadeguatezza sta tutta lì. Mi direte ma la destra il mito dell’uomo forte ce l’ha da sempre; appunto la destra. Renzi in teoria è stato un leader della (moderata, moderatissima) sinistra italiana. Una sinistra storica, forte, radicata ed a volte radicale (secoli fa) che sapeva capire le necessità primarie di un popolo e renderle legge attraverso percorsi partecipativi lunghi, difficili ma collettivi. Ecco, anche simbolicamente, il discorso di commiato (speriamo perenne) di quest’omuncolo dalla vita politica italiana ha voluto, ancora una volta, ancora di più, inquinare, insozzare, violentare le radici del pensiero politico della sinistra: esiste il noi! Poi può piacere o meno ma la sinistra nasce dall’idea di eguaglianza e dentro quell’idea lo spazio per l’io viene ridimensionato. (Angolo Nerd): il benessere dei molti conta di più di quello dei pochi diceva Spock. Ecco se non vi va bene non è un problema ma siete di destra. Basta saperlo. Però almeno a sinistra alcune cose le devi sapere; sapere che cos’è il movimento operaio, che cos’è un padrone, come funziona il mercato capitalista; cose così, insomma. Soprattutto se nella vita vuoi fare politica. Ora leggo reazioni a caldo di poveri democratici che speravano nel sì e che ora preconizzano, la morte della democrazia, la vittoria del M5S (che io reputo una sciagura atroce, sia chiaro), dittatori latino americani, espatri con le valigie di cartone…ecco, calma. Forse potrebbe anche esserci una terribile involuzione a destra i segni ci sono tutti; ma prima di morire ai piedi dell’altare vogliamo almeno chiederci il perché? A questo referendum hanno votato milioni di persone, sono tutti pericolosi fascisti con i denti affilati? Stesso ragionamento si potrebbe fare per la Brexit, per Trump ma rimaniamo a noi. Ma porca miseria 20 di Silvio non ci hanno insegnato nulla? Maree di lavoratori e disoccupati votavano e votano a destra. Perché? Cosa caspita siamo stati in grado di offrire a sinistra? Il Jobs act? E vi lamentante? Per capirci se avesse vinto il Sì l’Italia sarebbe di colpo divenuta la patria dell’eguaglianza e della partecipazione? Ma davvero? È tutta anti-politica. Quando perdiamo noi è sempre colpa dell’anti-politica. Ma vi sfiora l’idea che, invece, questo voto tenga al suo interno anche un grande desiderio di politica? Che forse una parte di chi ha votato No avrebbe una gran voglia di partecipare ma non sa dove farlo? Ora non dico che bisogna per forza promettere il socialismo ma nemmeno dire a milioni di persone: mi dispiace lavorerai col voucher e morirai di fame! Dobbiamo fare qualcosa di difficilissimo, dobbiamo scardinare l’IO dell’omuncolo e costruire NOI, dobbiamo rispolverare antiche pratiche per scoprire che, forse, non sono così inutili. Lo scrivevo qualche sera fa, il M5S che io reputo un male assoluto, avrebbe vinto le elezioni ugualmente, finiamola di pensare che così non sarebbe stato. Avrebbe vinto perché dice cose terribili ma anche perché noi non siamo capaci di controbattere nulla che non sia la deprimente viltà del capitalismo. Avrebbe vinto col suo nazionalismo assassino perché le leggi contro gli immigrati le hanno scritte Napolitano e la Turco. Avrebbe vinto col suo antieuropeismo di bassa lega perché nessuno dei leader della sinistra italiana è stato capace di mettere in campo un ragionamento transnazionale che andasse in direzione opposta a quella dell’austerity. Non avete perso un referendum avete perso una classe negandone l’esistenza in un delirio post-turbo.minchia e poi un paese che non avendo speranze preferisce votarvi contro anche rischiando un incubo. Se a questo non saremo in grado di opporre una costruzione collettiva, periremo uno alla volta, come individui, soli.

lunedì 28 novembre 2016

Que viva el CNEL!

IO giuro che non volevo; ho seguito questo psicodramma referendario con scarsa attenzione, del resto di più non meritava, e con un poco di sarcasmo. Vista dall’estero (dove risiedo più o meno saltuariamente) questa campagna elettorale pare piuttosto ridicola. Anche ad osservatori poco attenti. Insomma il globo pare attraversato da questioni ben più serie di questa perché troppe persone spendano tempo ed energie per affrontare una confusa (e confusionaria) riforma costituzionale. Nelle ultime ore, però, mi sono convinto che una cosuccia la dovevo scrivere, anche solo per i posteri, anche solo per poter dire a chi verrà dopo di me: lo vedi? Mentre il pianeta scivolava nel delirio neo-nazionalista ed i miei compatrioti erano intenti a discutere cose con poco senso; io lo dicevo. Ecco diciamo che i toni millenaristi della campagna elettorale mi hanno veramente stancato. Lo dico per dovere di cronaca, raramente mi sono trovato d’accordo con Bifo ma c’è un post sul blog del suo movimento che mi è parso corretto. Il succo è: l’Europa non esce dalla crisi, i popoli guardano a destra e voi pensate a queste cagate? Per carità è una banalizzazione ma di fatto questo è. Ecco mi trova abbastanza d’accordo. Non credo che se dovesse vincere il Sì si ribalteranno chissà quali equilibri istituzionali; è un pasticcio è una riforma scritta malissimo e pensata per snellire, velocizzare e, forse, banalizzare, cose che, a mio parere, avrebbero invece bisogno di essere ponderate, lente ed a volte persino macchinose. Provo a spiegarmi. La legge è sempre espressione di una classe dirigente. Le norme giuridiche rispondono a complessi equilibri sociali che dovrebbero evitare la guerra civile permanente ma non lo scontro. La democrazia è questa. Si tratta di un’infinita e lunga rottura di palle. Per questo questa riforma è sbagliata. Non si tratta solo del fatto che è scritta da dei cani che farebbero meglio a fare causa alle proprie scuole medie; è sbagliata perché strizza tremendamente l’occhio ad una deriva populista. Velocità e dinamismo. Poi, ripeto, è scritta talmente male che non succederà nulla ma il cuore, il pensiero profondo è la ricerca affannosa di una scorciatoia verso lidi di sfolgoranti ascese elettorali, attenzione, ma che poco hanno a che fare con il politico. Non è una riforma è una scorciatoia un po’ furbetta che dice all’elettore medio: hai visto ho tagliato i costi della politica. Ecco, io sarei per alzarli, invece. La politica è una cosa seria, le democrazie devono comporre interessi contrastanti ed a volte è difficile. La politica deve trovare soluzioni complesse a problemi che la maggioranza di noi ancora non vede. La politica è difficile e la democrazia prevede tempi lunghi e persone preparate. Non serve fare più leggi se sono stupide. Le leggi dell’Imperatore Giustianiano sono vecchiotte ma sono state alla base del pensiero giuridico occidentale per qualche secolo: per dire se una cosa la fai bene, magari ci metti tempo ma poi funziona a lungo. L’Europa sta sprofondando in un incubo di stagflazione non solo economica ma morale ed intellettuale; dipingiamo dei poveri disgraziati in fuga da guerre e miseria causate anche da noi, come un’orda di Visigoti, distruggiamo il futuro del continente sull’altare dell’accumulazione del capitale ed il problema è il referendum? Un po’ sì. Solo un po’ sia chiaro. È un problema il pensiero che ci sta sotto, è poco strategico anzi non lo è per nulla. Aldo Moro diceva che i politici pensano alle prossime elezioni mentre gli statisti alle prossime generazioni. Ecco dovremmo, forse, insegnare alle prossime generazioni, e ricordacelo anche noi, che la democrazia è lenta e complicata che si tratta di pazienza e di visione del futuro. Forse, però, visto che il futuro lo abbiamo dato per spacciato ci accontentiamo della velocità anche nelle sciocchezze. Avremmo, credo, bisogno di un pensiero strategico, che francamente manca, che pensi a modelli di società. Dire vota Sì altrimenti faremo le leggi più lentamente non è sufficiente; anzi. Io vorrei le faceste con calma perché sono importanti e regolano la vita della comunità, gli impediscono di crollare in quella guerra civile che tanti leader europei  di destra sembrano quasi auspicare. Dire pagheremo meno i politici mi spaventa perché mi viene in mente che Trump ha deciso di non essere pagato affatto. Vorrei pagarli molto i nostri politici in Europa, vorrei che prendessero decisioni sagge e che queste decisioni nascessero da un confronto anche aspro perché quello è il cuore della vita democratica. Non una maggioranza schiacciante che simula un unanimismo sterile e vuoto. Lo scontro (non la guerra civile sia chiaro) è fondamentale ed è lo sforzo della ricomposizione a fare la politica; per questo c’è bisogno di tempo e c’è bisogno che le persone che dedicano questo tempo, il loro tempo e la loro vita a un benessere collettivo, vengano pagate perché sia garantito anche a chi non ha di fare la sua parte dentro il dibattito collettivo. Ma ci stanchiamo, preferiamo un like, un post, un twitter; amiamo velocità fagocitanti e comunicazioni inutili. La democrazia vuole tempi lunghi, lavori faticosi e noiosi. Non si può decretare la bontà di una legge in un tweet on in un anno. La sola vera cartina di tornasole da questo punto di vista è questa crociata infame contro il CNEL che avrebbe dovuto essere un’istituzione di programmazione importante ma che è rimasta lettera morta come tante altre parti della Costituzione (pur splendida) di questo pese. Il CNEL non lo vuole nessuno perché non ha funzionato, dicono. Non ha funzionato perché vi avrebbe riportato ad un pensiero strategico, di programmazione, di lentezza e di saggezza. W il CNEL!

martedì 26 luglio 2016

gli atei, l'amore e la morte

Mi dispiace ma non so descrivere la morte; nemmeno una morte annunciata e che si attende come un taxi nell’androne di un palazzo mentre fuori piove. Vorrei essere capace, vorrei che tutti gli inutili libri che ho letto mi venissero in aiuto; ma loro no, se ne stanno bastardi e silenziosi a guardarmi dagli scaffali. Io purtroppo non ho doni da mettere nelle bare, non ho consolazioni da aggiungere ai fiori, non ho parole per descrivere ciò che non so e che non riesco nemmeno a percepire. Cosa vuol dire attendere un non meglio specificato nulla? Che significato ha il dolore fine a se stesso? Forse nessuno. Forse non c’è spiegazione; forse la fine è solo intimamente se stessa. Ed allora ha più senso pensare alla trippa ed ai mille involucri di plastica che avvolgevi attorno ad ogni cosa che mi davi; forse ha senso solo rimanere un secondo di più a stringerti la mano scarna fintanto sia possibile; non lo so ma altro non so fare. Vorrei dirti che ho imparato a chiamare la natura per nome perché l’ho visto fare a te; a te che non mi hai mai insegnato nulla ma mi hai semplicemente mostrato il tuo modo di avvicinarti alle cose. Con grazia, sì in qualche modo con una grazia semplice, con quella conoscenza che deriva dal saper dare ad ogni cosa un valore, persino un’etica. Mi piacerebbe rendere il tuo andare più lieve dicendoti che non sbaglierò e che mi prenderò cura di coloro che hai amato come avresti fatto tu; ma ti direi una bugia. Non c’è modo di rendere giustizia al tuo sorriso mentre guardi tua figlia provarsi un abito nuovo o tuo nipote pronunciare i primi vagiti; e mentre lui sborbotta suoni senza ancora alcun senso tu già senti che la fine sta giungendo. A volte più rapida in una fitta di dolore, a volte lentamente in quella consunzione lenta ma inesorabile che accompagna la malattia. Non mi è nuova la lunga liturgia di esami e trattamenti tremendi che hanno sfiancato il tuo corpo e le nostre anime ma, come sempre, mi ha dilaniato; ho tentato, ti giuro, di essere forte e di supportare la dolce giovane donna che tanto amo e che mi onora della sua presenza ogni giorno; non so se ci sono riuscito. Del resto per quanto mi sforzi non riuscirò mai a non farle sentire la tua mancanza. Ma è giusto così.

Ecco io non sono un credente; ho rispetto per chi crede; certo li guardo un po’ come i fratelli scemi che ancora si gettano anima e corpo nelle favole ma un po’ li invidio. E chissà, forse, il mio rispetto deriva proprio da quella invidia che sento; invidio il vostro senso di sicurezza mentre io non riesco ad averne. Invidio la vostra stentorea verità mentre io annego nei dubbi; invidio la vostra solida (chissà forse stolida) credenza in un altro mondo fatto di pace e giustizia e lontano dalle brutture di questo mentre stringo la mano della donna che amo e non so come consolarla; non so aiutarla, non so spazzare via paure e dolore come se fossero cenere su di un tavolo; mentre lei guarda sua madre morire, io vi invidio. Poi, però, penso che starò al suo fianco e che non le mentirò e che sarò semplicemente quello che sono senza cercare di sconfiggere un dolore immenso col quale conviverà per il resto della vita; e che la sola cosa che potrò fare sarà portare quel bagaglio di dolore con lei; non avrò risposte e forse per questo cercherò di essere migliore, per rispettare una promessa non fatta ma alla quale sono legato. Mi prenderò cura di lei ogni giorno e non avrò bisogno di altro. Gli atei soffrono di più ricordatevelo! Gli atei cercano di essere giusti per onorare la memoria dei loro cari che non ci sono più non perché credono in qualche ricompensa. Non credo in nessun dio e se ci fosse lo sfiderei dal profondo delle mie viscere e rinascerei da qualsiasi inferno per raderlo al suolo con la forza di un odio immenso e titanico. Sono ateo e amo quello che ho come voi non capireste mai; sono ateo e la forza che discende da questa consapevolezza voi non la sentirete mai. Noi, rispettiamo le promesse, anche quelle non fatte. Non abbiamo speranze per questo amiamo disperatamente. Non abbiamo fede per questo ci affidiamo senza riserve alla vita; e quando questa scivola tra le dita non abbiamo risposte ma solo domande; non abbiamo salmi da innalzare ad un cielo vuoto ma solo un canto che celebra, ancora ed ancora, la vita. Quella unica ed irripetibile che voi non assaporerete mai; quell’esperienza unica che non ha senso e per questo è così immensamente piena. Noi non sappiamo, preferiamo vagare in un buio reale tenendoci stretti per non avere paura anziché inventarci invisibili e muti dei che ci lasciano soli. Ed è per questo non volersi abbandonare alla solitudine che rimaniamo lì; resistiamo in piedi anche quando avremmo voglia di cadere. Perché sappiamo che aggiungere solitudine a disperazione non porta a nulla. Starò qui finché sarà possibile. Starò qui a cucinarti una volta di più, a stringerti mentre svanisci nel mio abbraccio a restituirti quel poco che ho, quella speranza che parla al presente e che si proietta in un futuro che non vedrai ma che ti appartiene perché noi non crediamo in nulla se non nella vita. E celebriamo quella anche mentre ti salutiamo un giorno dopo l’altro senza dirti che manterremo promesse che non abbiamo fatto.

sabato 23 luglio 2016

come in un videogame

Cos’hanno in comune gli uomini e le donne che hanno preparato e messo in atto gli attentati che negli ultimi 18 mesi hanno sconvolto L’Europa occidentale[1]? Molti, la grande maggioranza, erano di fede islamica. Non tutti erano musulmani modello, anzi. L’ultimo addirittura era un ragazzo giovanissimo che in preda ad un delirio di tipo nazionalista, oltre che ad evidenti turbe della personalità, odiava i turchi e gli immigrati essendo lui stesso di origini iraniane. Come possiamo tracciare una linea, per quanto tortuosa, che unisca l’attentatore di Monaco con quello di Nizza e quelli del Bataclan? Come possiamo pensare che un gesto isolato (almeno a 24 ore dall’attentato sembra esserlo stato) con un piano complesso che fa capo ad un’organizzazione transnazionale che si auto proclama Califfato? Forse, il cuore di questo tentativo è ancorato a quello di egemonia in Gramsci. L’egemonia, ossia le forme di domino culturale che danno forma alle società, non sono neutrali ma, in qualche modo, espressione della classe dominante. Allo stesso modo si sviluppano lungo assi che travalicano la cultura ufficiale ma che dipartono, a raggiera, abbracciando ogni modello espressivo dalla letteratura alla musica ed all’arte fino al divertimento. Per questa ragione le forme del dominio culturale sono così strettamente legate allo specifico nazionale perché i loro codici sono connaturati ad una specifica cultura nazionale; o quanto meno, e questo è cruciale, di un gruppo. L’appartenenza è un dato culturale; anzi è il dato culturale per eccellenza. Fare parte di un gruppo, una nazione, una tifoseria, una generazione, una fede, spiega al singolo essere umano chi è, qual è il suo scopo oltre se stesso. In una parola da senso non solo alla sua vita ma alla sua morte. Ora da circa quarant’anni il modello culturale dominante delle società occidentali si è basato su di un’idea portante estremamente forte e fortemente propagandata: l’individuo. Null’altro vale se non l’individuo. Non mi metterò qui a fare una critica del neoliberismo, non serve, sta fallendo da solo. Mi sta, invece, più a cuore pensare alla diffusione massiccia di un modello culturale individuale e superomistico allo stesso tempo. Sì perché se l’unica dimensione che conta è quella individuale questo stramaledetto individuo che sono dovrà essere, per forza, speciale, unico ed irripetibile. L’eroe di un videogame, di un film d’azione, di una canzone. Chi in tutta coscienza vorrebbe essere comprimario o ancora peggio semplice comparsa? Chi non aspira a dare alla propria esistenza un significato che travalichi la sua morte? Lo Stato è in crisi, le società, la famiglia, ogni tipo di istituzione sta vivendo un momento di stravolgimento. Veniamo invitati a vivere vite straordinarie e solitarie; persino le pubblicità dei deodoranti ci spingono verso titaniche traversate dei deserti in cerca del senso ultimo dell’esistenza. Laddove questo senso ultimo rimane sempre lo stesso: tu e soltanto tu importi. Non c’è nazione, progetto, politica, non c’è futuro. Veniamo spinti a forza in un presente senza fine. A quel punto la fine è il solo momento che appare degno di considerazione. Un uomo di successo se ne va con stile e con il botto. Non vorrai mica morire in una periferia sfigata come quella dove sei cresciuto, vero? Il lavoro, la mancanza di lavoro, la famiglia, la società, persino la fede, son tutte cose importanti ma solo nel momento in cui sacrifichi la tua eroica vita in nome di questi feticci. Sì perché in realtà nessuno degli attentatori era un vero musulmano (cristiano od ebreo, sarebbe stato lo stesso) e della santità del Califfato gli importava, probabilmente, molto poco. Volevano distinguersi volevano vivere come un eroe almeno per una volta. Sono cresciuti con Doom (non è vero ci sono cresciuto io ma i videogame di ultima generazione non li conosco), sono invincibili e muoiono solo perché lo scelgono. Sono solo morti eroiche. Non si disfano di lavoro per crepare di malattie prese sul lavoro mentre ancora pagano il mutuo. L’egemonia culturale, dunque, ha funzionato. Anche troppo bene. Non credo sia un caso se la stragrande maggioranza degli attentatori fossero nati e cresciuti qui in Europa. Siamo stati noi a dirgli di pensare solo a sé stessi e che il futuro non esiste. Di che vi lamentate? Dei morti? Ma se son solo pupazzi? Loro sì che sono inutili, loro sì sono solo personaggi del videogame: gli sparo ma non lo faccio perché ce l’ho con loro. Anzi lo faccio per me, solo per me; in fondo chi è più importante di me e del modo in cui vivo la mia unica avventura? Perché quella conterà alla fine. Non se ero anche un po’ omosessuale ed omofobo, non se mi facevo le canne e bevevo, non se contravvenivo a qualsiasi precetto della fede che dico di professare. Perché la sola fede che sto professando è la mia fede. Poi, chiaramente, questa fede mi aiuta a sentirmi parte di qualcosa di più grande, mi fornisce l’infrastruttura necessaria alle mie gesta. L’idea che il mio gruppo mi ricorderà come un martire è centrale in tutta questa liturgia; ma ancora il gruppo è il depositario delle mie gesta; vero che senza gruppo non ci sarebbe memoria ma senza le gesta forse non ci sarebbe gruppo. Un cane che si morde la coda, insomma. Un corto circuito di culture della morte: una che ti dice che sei la cosa più importante e l’altra che ti suggerisce che sei talmente importante che la tua morte sarà un capolavoro: chi parlava di bella morte? Ah sì. Anche allora lo Stato così come lo avevano conosciuto era in crisi, anche l’economia tanto bene non andava e pure allora vi era stata un’ondata di romanticismo che faceva anelare alla morte ed alla guerra come momento salvifico. Sopra queste culture, individualismo e superomismo, ci possiamo costruire molti miti: la nazione, il califfato, la fede, l’antimodernismo. Al fondo rimane la vittoria dell’individualismo su una dottrina che parlava di giustizia e di libertà come percorso collettivo: non per scelta ma come unica via. Parlava di socialismo. Ma ci avete detto che eravamo vecchi ed inutili. Adesso tenetevi la gioventù che avete allevato, sono soli, feroci e senza pietà. Proprio come li volevate. Gli avete insegnato che si deve vincere, sempre e che se non si vince si forza il risultato. Gli avete detto che perdere fa schifo e che il vincitore è uno solo e prende tutto. Vi stanno prendendo tutto… pezzo dopo pezzo, cadavere dopo cadavere. Ah e se ve lo steste chiedendo: hanno appena cominciato e voi non avete nulla da opporgli.



[1] Si parla di Europa Occidentale perché prendere in considerazione il globo terracqueo sarebbe fin troppo complesso; è bene, però, ricordare che i più sanguinosi attentati degli ultimi anni hanno visto come teatro città del Medio ed estremo Oriente.

lunedì 16 novembre 2015

Paris 13-11

L’unica difesa che abbiamo è restare noi stessi. Così dice Alain Touraine. Non ci difenderemo dal terrore diventando altro da noi, lasciando che la paura ci domini. Giusto da dire; molto difficile farlo. Io mi occupo di violenza e terrorismo da anni, ho intervistato terroristi di ogni colore politico, ho visitato luoghi e stati mentali di disperazione e solitudine assolute cercando di comprendere le motivazioni ultime che spingono un essere umano a pianificare e mettere in atto attentati costati la vita a centinaia di persone; eppure l’altra sera sono rimasto attonito e per molte ore non ho fatto altro se non inveire contro telefoni che non squillavano. Ripetevo ossessivamente lo stesso gesto pur sapendo che non c’era alcuna possibilità che le linee telefoniche mi restituissero altro che un tragico silenzio. Ho sbraitato contro ogni possibile dio e contro gli uomini con lo stomaco attorcigliato mentre tentavo invano di avere notizie dai molti amici che vivono a Parigi. Ed è differente; quando una cosa del genere capita così vicino, a persone a cui vuoi bene lungo strade che hai camminato e posti che conosci e che ami. I morti, per carità, hanno tutti la stessa dignità, Parigi Beirut, i passeggeri dell’aereo russo e tutti gli altri, ed il giudizio politico è lo stesso ma emotivamente è dannatamente diverso. Poi sono passate le ore e lentamente ho ricominciato a pensare; è passato il momento della paura irrazionale ed ho ricominciato a fare la sola cosa che mi riesce: pensare ed a volte scrivere. Questo è stato possibile solo perché nessuno delle persone che amo è rimasto ucciso o ferito. Una cara amica era al Bataclan giovedì sera, un altro ci abita di fronte ed ha dovuto passare la notte fuori casa; un’altra cara amica era a Beirut e cercava di tornare a casa sua a Parigi (lei vince una specie di premio…).
Come spesso mi capita quando non capisco bene le cose, leggo. Leggo spesso. Ieri notte rileggevo alcuni passaggi di Gramsci sulla rivoluzione passiva ed il fascismo. La cultura popolare sulla quale si poggia qualsiasi regime. Non costruisci un regime senza essere profondamente radicato nella cultura del popolo. L’ISIS è un gruppo islamico. Sì, più o meno. Ci sono un miliardo e mezzo di persone di religione islamica nel mondo. Fortunatamente quasi nessuno di loro condivide l’avventura politica della creazione di un nuovo stato che unifichi i vecchi territori del califfato per poi lanciare la guerra santa contro il resto del mondo. Coloro i quali condividono questa visione sono molto pochi ma molto agguerriti. Hanno una visione e la perseguono con tenacia e con ferocia. Siamo passati anche noi attraverso decenni di guerre a sfondo religioso. Poi in realtà non c’era la sola religione bensì complessi equilibri di potere e rapporti di forza. Pur di porre un limite alle mire espansioniste di questa o quella casata ci siamo inventati la territorialità della fede: vivi in un paese il cui principe è protestante? Bene sei protestante pure te. Non ti va bene? Te ne vai. Cattolico il re? Cattolico pure tu. È una semplificazione ma più o meno è andata così; a parte un gruppo di puritani talmente bigotti che gli inglesi li cacciarono a fondare i futuri Stati Uniti (fosse affondata la Mayflower….). Dicevamo, quindi, la religione diventa un fattore che aiuta i futuri stati a darsi un’identità omogenea, a costruire basi anche giuridiche di convivenza. La guerra diviene un affare di Stato e tra Stati. Lo spettro della guerra civile viene allontanato almeno fino alla Rivoluzione francese. Li si trattava di cacciare un Re ed istituire un governo basato su diritti di proprietà invece che di nascita. È la modernità; non è che ti opponi alla modernità e se lo fai sei destinato a perdere. Fosse così facile dovremmo solo aspettare che il fondamentalismo religioso perisse da solo sotto le progressive sorti della storia. Ecco non va per niente in questo modo. Non c’è nessun verso, la storia non ha fini non mira a nulla. Bisogna scegliere. Non c’è causalità ineccepibile nelle vicende umane. Bisogna scegliere. L’ISIS ha caratteristiche profondamente anti moderne ma risponde in maniera contemporanea a sfide presenti e lo fa con mezzi assolutamente efficaci. Migliaia di giovani e giovanissimi che si uniscono alle sue file ogni mese dovrebbero averci fatto aprire gli occhi. L’altra notte hanno vinto. Una battaglia, certo non la guerra ma hanno vinto. Se una ventina di giovani militarmente poco addestrati ma con una ferrea volontà di morte sono in grado di paralizzarci a questo punto: hanno segnato un bel punto. Mentre perdono terreno in Medio Oriente rilanciano; quello che mi spaventa e non sapere quanti giovani partiranno domattina per la Turchia col solo scopo di attraversare una frontiera ed unirsi a loro. Possiamo batterli militarmente ma se non capiamo la cultura che li ha portati fin qui non vinceremo mai. Sono forti? O siamo noi ad essere divenuti deboli? L’altra sera un caro amico mi diceva che vedendo i loro video sembra di guardare un video game: sono cresciuti con Doom, questo è una versione upgrade! È una provocazione sia chiaro ma che avventura stiamo offrendo? Attenzione non dico che si sconfigge l’ISIS offrendo avventure facili ma non sottovaluto la potenza evocativa di una visione; i ragazzi del ’68 sognavano il socialismo, e quelli a cui non fregava nulla della politica di andare sulla Luna! Quali grandi aspettative stiamo creando come società? Cos’abbiamo da offrire? Per cosa rischiare? Per pagare i debiti della carta di credito? Per l’assicurazione sanitaria? Cazzo è tutta la vita che sogno di ammazzarmi di fatica per arrivare, da vecchio, a pagarmi la protesi di titanio all’anca! Sia chiaro cerco di capire; tra la fine del ’44 e la primavera del 1945 furono migliaia i giovanissimi che si arruolarono volontari nelle SS e nella Wermacht. La guerra era persa ma una generazione cresciuta in un mondo socializzato ad una violenza terribile non poteva pensare di non combattere; di non far parte di un’isteria collettiva. Qui di generazioni ce ne sono almeno due che sono cresciute in Medio Oriente sotto le bombe ed in occidente, figli di seconda o terza generazione di emigrati, con lo spettro di un’esclusione sociale perenne.
Ora è chiaro che la politica non può essere solo visione ma deve riuscire a darsi delle gambe sulle quali far camminare davvero i sogni e le aspirazioni. Oggi le gambe però mi paiono essere state pezzate così irrimediabilmente che non è data più nemmeno la possibilità della visione. L’ISIS ha una visione, atroce per molti di noi ma fornisce una risposta: la fede come identità transnazionale che identifica amici e nemici dentro un piano quasi escatologico di rivoluzione globale. Non importa che sia vera fede, importa che quell’idea di fede venga riconosciuta dalle masse come qualcosa di familiare, di rassicurante, come un elemento culturale ancestrale attorno a cui radunarsi. L’ISIS per dirla con Gramsci ha occupato inizialmente le casematte di alcuni paesi incorporando due degli aspetti fondamentali per la creazione dell’egemonia culturale: scuola e religione. Le madrasse, le scuole coraniche, finanziate spesso dai sauditi, in cui le famiglie povere potevano, e possono, mandare gratuitamente i bambini sono state, a partire dagli anni ’90, la pietra angolare delle organizzazioni terroriste. Quello è stato il primo passaggio di vittoria egemonica della loro visione; il secondo è stato l’utilizzo dei nuovi media per far aderire quell’ideologia globale ad una realtà prima virtuale e poi fisica; facebook, twitter, canali tematici di indottrinamento, e dall’ideologia agli affari con gli sharia bond ed i fondi per finanziare attività lecite ed illecite in modo anonimo e puro dal punto di vista religioso. La struttura dell’estremismo è fitta e si compone di centinaia di sigle a livello planetario. Vieni a costruire un impero, immolati per qualcosa di eterno ed invincibile; potranno sconfiggerci oggi ma vinceremo domani e tu sarai un martire immortale. Eccola la promessa: l’immortalità. La stessa di ogni regime totalitario.

L’idea prima dell’individuo, il gruppo, il clan, la famiglia, il partito, la patria…si potrebbe andare avanti all’infinito. E tra i pochi eletti che saranno sempiternamente ricordati: tu! La riscoperta della specificità individuale dentro un progetto millenarista. La stessa dicotomia tra anti modernità e contemporaneità che fa vivere un’ideale globale nel precipitato novecentesco di uno Stato. La religione, da questo punto di vista, non è così centrale; diviene centrale come apparato ideologico e politico. L’ISIS lancia una sfida politica alla quale può rispondere solo la politica. Allora la frase iniziale di Touraine non basta più: non possiamo rimanere quelli che siamo, abbiamo bisogno di ripensare paradigmi di trasformazione e di puntare di nuovo alla Luna ed alle stelle. Poi tutto rimane muto tutto si fa più oscuro pensando al suono delle sirene, all’odore della cordite che rimane nell’aria per ore, al sangue che non lavi via dalla pelle, alla paura che ti fa svegliare la notte a mesi di distanza.

lunedì 13 luglio 2015

Nessuno spazio di riformismo

Da qualche anno oramai cerco di comprendere la crisi economica che attanaglia quest’angolo di universo conosciuto con i pochi strumenti che mi sono costruito in anni di peregrinazioni, militanza politica e studi. Sono marxista per formazione e, quindi, ho la tendenza a spiegare la realtà che mi sta intorno affidandomi a quelle categorie; non credo siano sempre infallibili ma non penso siano più fallaci di altre e, fino ad oggi, mi convincono più di altre. Non ho alcuna intenzione di formulare una spiegazione complessiva di questa crisi in un singolo post ma dato che ne ho scritti altri forse un giorno tenterò di raccoglierli. Prima di tutto credo che ci siano da separare alcuni piani del ragionamento che sono almeno 3: uno economico, uno politico ed uno geopolitico. Sono convinto che senza l’analisi e l’intersezione di questi 3 piani poco si capisca di ciò che sta accadendo. Una volta analizzati questi tre aspetti sarà, forse, possibile cercare di tirare delle conclusioni.
La crisi da un punto di vista puramente economico ha a che fare con 3 eventi che si sono alimentati l’un l’altro ed al quale sottende un dato ideologico molto forte. Il primo di questi livelli è legato alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Per via dell’accelerazione tecnologica che abbiamo vissuto negli ultimi 30 anni le imprese si sono ritrovate a dover fare investimenti sempre più massicci in capitale fisso. Per intenderci innovazione sia di processo che di prodotto. Questo erode il saggio di profitto. Le risposte possibili a questo fenomeno sono solitamente almeno 3 ma cerchiamo di analizzare qual è stata la risposta europea: la compressione del monte salari. Dato che le spese per l’innovazione sono, fino ad un certo livello, ineludibili il capitale tenta di rivitalizzarsi, cioè cerca di riacquisire capacità riproduttiva, abbassando i salari. In tutta Europa, infatti, i salari sono scesi a parità di produttività su ora lavorata. Per raggiungere questo obiettivo si è smantellato il welfare, cioè salario accessorio e si sono smembrati i diritti fondamentali primo tra tutti proprio il diritto al lavoro cancellando i contratti a tempo indeterminato.
Meno welfare, che ricordiamolo per inciso è salario, nessuna garanzia contrattuale a fronte di una maggiore produttività per singola ora lavorata. Queste condizioni hanno creato una condizione classica del capitalismo ossia una sovrapproduzione. Almeno dalla prima metà degli anni ’90 del novecento si produceva troppo; in tutti i settori. Basti pensare alla sistematica distruzione di tonnellaggi importanti nell’agro alimentare dettata dalle regole europee per comprendere questo passaggio. La distruzione da solo non basta, però. C’è bisogno di incrementare i consumi. La crisi greca, per fare un esempio, nasce non tanto e non solo da un debito pubblico fuori controllo ma soprattutto da un debito privato gigantesco a fronte di una produzione azzerata. La Grecia, così come il Portogallo ed in parte la Spagna erano e sono paesi a scarsa vocazione industriale; li si è guidati in un triplo salto mortale dal settore primario al terziario avanzato chiedendogli, allo stesso tempo, di consumare di più, sempre di più. Dovevano consumare merci prodotte dai paesi ricchi, attenzione non nei paesi ricchi, anche, ma soprattutto dai paesi ricchi come la Germania. Se il cittadino medio portoghese o greco non ci riusciva gli si veniva incontro con la più antica delle invenzioni: il prestito. Il costo del denaro venne abbassato sempre di più per far sì che i cittadini dei paesi poveri potessero consumare. Questo semplicemente perché altrimenti non si scongiura il rischio della sovrapproduzione. Abbiamo quindi vissuto un decennio con tassi d’interesse molto bassi e prestiti al consumo concessi con grande facilità. A questo ha fatto da contro altare una caduta sempre più rapida sia dei tassi di occupazione che d’industrializzazione. Sempre per poter combattere la caduta del saggio di profitto il capitale è migrato verso lidi più profittevoli; est Europa, paesi asiatici dell’America del Sud e parzialmente verso l’Africa. Attenzione non sono stati soltanto i capitali maturi a optare per questa scelta, non siamo di fronte ad una migrazione che permette di sfruttare macchinari e processi vecchi in paesi vergini. Persino la Cina la cui industrializzazione di massa è decisamente più recente di quella Europea ha cominciato ad produrre in Vietnam e Cambogia onde poter sfruttare salari più bassi. Proprio al gigante asiatico ci si volgeva negli ultimi anni speranzosi che vivesse un boom tale da poter trascinare con sé l’economia mondiale; questo non sta accadendo semplicemente perché, seppur di Stato, quello cinese è un sistema capitalistico e vive le contraddizioni classiche del capitalismo. Ed a queste contraddizioni classiche reagisce in modo altrettanto classico: abbattimento del monte salariale ed imperialismo. Sul primo basti guardare i dati e gli articoli di Yang, Chen e Monarch su riviste quali la Pacific Economic review; per il secondo aspetto aprire il Sole 24 ore un giorno qualsiasi degli ultimi 5 anni e scorrere le notizie dell’espansione cinese in giro per il mondo. Non starò a scomodare Hilferding quindi basti guardare D. Harvey quando nel 2003 parlava di nuovo imperialismo per descrivere la tendenza che il capitale stava prendendo su scala globale. Ma, quindi, che diamine succede? Succede che il pianeta è limitato. Non c’è posto, spazio e risorse per tutti. Lo abbiamo sempre saputo basta entrare alla prima lezione di un qualsiasi corso di micro-economia fatto con un poco di criterio per sentirselo dire. Ora il vero punto, come sempre, sta qui: come distribuiamo la ricchezza che è, appunto, limitata? Chi ha accesso a cosa? E secondo quali regole? La Prima e soprattutto la Seconda guerra mondiale aveva non solo posto fine alle aristocrazie prima ed ai totalitarismi poi, avevano segnato la fine di un pensiero ottocentesco di matrice protestante che incentrava lo sviluppo economico sul pareggio di bilancio. Non lo faceva a seguito di grandi studi economici ma solo perché l’economia che era, a ragione, considerata una scienza sociale doveva conformarsi all’etica. E dato che l’etica del tempo poneva un’enfasi particolare sulla laboriosità ed il risparmio pensando di poter gestire una nazione come una massaia, il pareggio di bilancio era giusto ed etico. Da un punto di vista politico questo voleva dire essere magari sì repubblicani ma era quello un ideale democratico monco; era ancora legato al censo: se lavori e guadagni allora voti. Se sei un fannullone non hai diritto di scelta, oggi accade moltiplicato lo stesso fenomeno: non importa se i cittadini greci hanno votato; sono considerati antropologicamente incapaci di decidere ed è, quindi, giusto che i saggi risparmiatori decidano per loro. Il censo prova la loro inettitudine politica. Ora tra il 1914 ed il 1945 questa follia si è sgretolata sotto il peso di due conflitti mondiali; intendiamoci non sono stati i poveri a fare le guerre. Le guerre le han decise le case regnanti e qualche cancelleria di supposti Reich millenari. Ai poveri è stato chiesto di morire a milioni ed in cambio di questo gli si è concesso il voto. Non la libertà, non l’eguaglianza non uno straccio di diritto reale e materiale; no quelli se li sarebbero dovuti sudare in fabbrica e conquistare con le lotte sociali. Il suffragio universale viene però concesso. Dopo la Seconda guerra mondiale vi era poi il nemico comunista da combattere anche e soprattutto sul piano interno e specialmente in Europa. Qui da noi la retorica puritana del self made man non aveva attecchito poi tanto, i sindacati erano sopravvissuti in qualche modo ai fascismi, i partiti della sinistra prendevano carrettate di voti e soprattutto c’era il modello: il fordismo.
Te lavori 12 ore al giorno ed una parte del tuo salario invece che dartela ti viene trattenuta dallo Stato che in cambio ti offre dei servizi: scuole pubbliche, sanità e pensioni. Oddio non andò proprio così ci furono feroci battaglie ma in fondo eravamo in un momento di crescita e qualche piccola concessione si poteva anche fare: Anche perché investire e far fruttare il capitale fuori dalla sfera occidentale era, allora, molto difficile. Oggi tutto questo non è più vero. La geopolitica aiuta e viene incontro al vincitore del nostro secolo: la borghesia. Gli investimenti si spostano i mercati occidentali rallentano e quelli dei paesi in via di sviluppo non sono ancora abbastanza forti. Che accadde? Nulla stiamo cambiando il modello di produzione solo che mentre l’Europa non è competitiva da un punto di vista di saggio di profitto i paesi in via di sviluppo non sono ancora pronti al 100%. Il capitale stagna ed il saggio di profitto decresce. In Europa quindi cerco di abbattere il monte salari, di rimbalzo c’è un lieve aumento dell’occupazione a condizione ottocentesche, mentre attendo che una serie di paesi, soprattutto Africani, divengano terreno fertile per la riproduzione del capitale. Per intenderci dovete pensare al capitale come ai Panda…farlo riprodurre è un macello, è una bestia esigente: vuole manodopera qualificata e passiva, infrastrutture all’avanguardia ed economiche vuole tasse molto basse e rendite alte; incontentabile insomma.

Ora purtroppo la geopolitica non è una scienza esatta e l’economia men che meno, quindi, tutto questo ragionamento che avrebbe spinto alcuni di voi verso l’Angola in cerca di facili fortune si inceppa su di un punto, sempre quello: il pianeta ad un certo punto finisce ed in Angola a cercare fortuna ci stanno andando tutti. Questo acuisce il problema perché per sconfiggere la concorrenza dei paesi che un tempo erano colonie e che ora si affacciano al tavolo dei grandi avanzando pure pretese, il posto al Sole, mi servono altri denari. Ma ho appena detto che il mio capitale è vecchio e non si riproduce? Dove li trovo altri denari? Il saggio di profitto come l’erezione di un ottantenne cala….ah il vigore dei vent’anni…o degli anni ’20! Dunque dove trovo il viagra..pardon altri quattrini freschi per rivitalizzare il mio vecchio capitale? Facile, dai poveri! Si erano dimenticati di quella massa di disperati accatastati in un angolo in Europa ai quali avevano prestato un sacco di soldi per mantenere alti i loro livelli di consumo. Scusate ragazzi i soldi dovete ridarceli indietro. E se non li avete amen tirate la cinghia c’è la congiuntura internazionale le borse languono ed al capitale non gli tira. Vorremmo mica farci fregare da questi parvenu?  E poi scusate non siete nemmeno più operai fordisti per cui vi stiamo erogando un welfare che non state pagando. Mica possiamo fare regali! Eccola la retorica nazionalista, becera che ricorre a strumenti di terrore come il pareggio di bilancio a percentuali assassine per dirti una cosa semplice: devi soffrire per la patria che a breve ti chiamerà di nuovo a morire. Sono il nemico non un avversario ma con i nemici non si può giungere ad accordi, non ci si parla neppure col nemico. Lo si combatte fino alla fine. Siryza era ed è una forza riformista in un momento nel quale non vi sono spazi di riformismo, pensavano i compagni greci di essere di fronte ad un avversario, stolti. Siamo di fronte al nemico di classe quello di sempre. 

giovedì 11 giugno 2015

equilibri

Matteo Renzi è diventato Presidente del Consiglio dopo aver sconfitto Pier Luigi Bersani come leader del PD.
Grazie a questa manovra politica, del tutto legittima perché siamo una democrazia parlamentare e non presidenziale, oggi il giovane ex democristiano è alla guida del paese e sta realizzando un programma di riforme di grande importanza. Sono misure volte a ridurre gli spazi di critica, a criminalizzare il dissenso sociale ed a portare a termine un’idea precisa secondo la quale l’Italia può uscire dalla crisi economica comprimendo il monte salari. Va da sé che per raggiungere questo scopo si debba auspicare una dialettica capitale-lavoro pressoché inesistente o, ancora meglio, evocare lo spettro autoritario del sindacato unico. Vi è anche da dire che perseguendo quest’obiettivo si può contestualmente tagliare la spesa pubblica, per lo meno quella destinata alla formazione superiore. Sì perché una manodopera mal pagata non necessita di istruzione superiore e di conseguenza su quel capitolo di spesa possiamo permetterci di risparmiare. Il piano in sé potrebbe anche funzionare. In fondo il boom economico italiano era basato su bassi salari e tanta repressione; nulla di nuovo. Certo all’epoca era la DC a fare queste cose ed il PCI stava all’opposizione. Oggi no. E questo è, forse, il problema. Non esiste alcuna forza di opposizione al pensiero ottocentesco che in tutta Europa si è affermato. Siamo persino riusciti a riesumare un morto: il pareggio di bilancio. Se qualcuno si prendesse la briga di leggere gli strali degli americani contro Einaudi che tesaurizzò gli aiuti del piano Marshall per raggiungere il pareggio di bilancio ci renderemmo conto che abbiamo abbondantemente sforato l’assurdo. Governare processi complessi però è affare che richiede versatilità è il piano per quanto preciso necessita degli aggiustamenti. Uno di questi aggiustamenti, doloroso ma necessario, passa attraverso il consenso. Matteo Renzi il consenso, quello elettorale, non se lo era ancora pienamente guadagnato visto che il trionfo alle elezioni europee non poteva, giustamente essere sufficiente. Ma le regionali le ha vinte. I dati parlano chiaro. Potremmo stare qui ore ad analizzare i flussi di voto ma ha vinto in molte aree del paese storicamente vicine alla destra. Per farlo ha presentato l’impresentabile, si è detto. Uomini politici di lungo corso, alla faccia della rottamazione, implicati in svariate storie spesso poco chiare. Ha anche tentato di piazzare qualche LadyLike qua e là ma gli è andata male. Le elezioni regionali e nazionali si basano su compositi equilibri di potere che vanno gestiti dentro e fuori dal partito. E sono stato quegli equilibri di potere ad aver deciso le candidature. Facciamo un esempio: la classe dirigente del PD campano è coinvolta da anni in scandali che hanno a che fare con corruzione e presunti collegamenti con la criminalità organizzata. Come hanno votato i rappresentanti campani dentro il PD quando Renzi ha sfidato Bersani? Compatti con Renzi. Da quel giorno in poi nessuno ha più sentito una parola sulla “terra dei fuochi” e su nomi come Bassolino o Rosa Russo Jervolino è calato il silenzio. Oggi il ne-governatore della Campania ha detto che Saviano s’inventa la camorra per non restare disoccupato.

Lo dicono da anni, lo dissero anche della mafia che non esisteva. A Giovanni Falcone e Paolo Borsellino li chiamarono pazzi visionari. Io non so se De Luca è un camorrista o abbia mai avuto a che fare con la camorra e francamente dopo l’affermazione di oggi non m’interessa. Le organizzazioni criminali esistono ed esistono non solo come forme di potere alternativo allo Stato ma, l’ho già scritto, come simbionti dello Stao. Le due strutture al Sud non sopravvivono l’una senza l’altra ed i due progetti sono inequivocabilmente interconnessi. Chi sono i mafiosi? Davvero pensate di trovarli al bar con la coppola e la lupara? Chiaramente no. Governano i grandi processi economici del paese come insegna la questione EXPO. Hanno bisogno di giovani laureati? No hanno bisogno di 3 cose: manodopera a basso costo e desindacalizzata, amministratori locali compiacenti e possibilmente che si restauri una volta per tutte un’idea: la mafia non esiste. In fondo nemmeno Renzi esiste in quanto tale: è il risultato di accordi di potere e di classe. Non è colpa di Renzi o del PD...nemmeno loro esistono.